L’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quello in cui furono autorizzate: applicazione pratica del principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite n. 51/20.
Con la Sentenza n. 51/20 le Sezioni Unite hanno espresso il principio di diritto per il quale “il divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen. di utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali siano state autorizzate le intercettazioni – salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza – non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 cod. proc. pen. a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge”
Nel caso che ha occupato lo Studio, l’imputazione mossa dalla Procura capitolina riguardava un’asserita concussione la cui prova sarebbe stata rappresentata dal contenuto di alcune conversazioni telefoniche.
L’attività di captazione era stata autorizzata dal GIP di Napoli in seno ad una delle numerose indagini nate nell’ambito della gestione dell’emergenza rifiuti in Campania, volta ad accertare “l’esistenza di una organizzazione dedita al traffico illecito di rifiuti indifferenziati della quale sembra faccia parte, a diverso e vario titolo, l’usuario delle utenze radiomobili”.
In nessuna delle richieste della Procura napoletana o delle annotazioni allegate a supporto si faceva riferimento, neppure per cenni, alla vicenda oggetto del processo romano.
Ad ogni modo la Procura di Roma otteneva dal GIP di Napoli lo stralcio degli atti rilevanti per la propria ipotesi accusatoria e la formazione di un autonomo procedimento da trasmettergli per competenza: il nome del nostro assistito veniva quindi iscritto nel registro degli indagati per il reato di cui all’art. 317 c.p.
In sede di richiesta di ammissione prove, il PM chiedeva la trascrizione di quelle intercettazioni e la difesa si opponeva rilevando l’illegittimità di un’eventuale acquisizione al fascicolo del dibattimento atteso che il reato per cui si procedeva:
– non prevedeva l’arresto in flagranza, ciò escludendo l’applicabilità della deroga prevista dall’art. 270, co. I, c.p.p. che consente l’utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli in cui furono autorizzate solo laddove “rilevanti e indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”;
– all’epoca della presunta commissione (antecedente alla L. 190/12, c.d. “Legge Severino”), era punito con una pena edittale minima di 4 anni esulando pertanto dai limiti di ammissibilità dell’intercettazione stabiliti dall’art. 266, co. I, lett. b).
Ma soprattutto, alla luce del principio espresso dalle Sezioni Unite e alla necessità di una connessione ex art. 12 c.p.p. tra i reati, la difesa rilevava come nel caso di specie non ricorresse alcun legame sostanziale tra i reati originariamente ipotizzati e per i quali l’intercettazione era stata autorizzata e prorogata, e la presunta concussione.
Infatti, dicono le Sezioni Unite, in tutti i casi di connessione, “la regiudicanda oggetto di ciascuno” dei reati delle imputazioni connesse “viene, anche in parte, a coincidere con quella degli altri”: ed è proprio questa “parziale coincidenza della regiudicanda”, espressione di un “legame sostanziale – e non meramente processuale – tra i diversi fatti-reato”, che consente di ricondurre gli stessi ai reati oggetto dell’originario provvedimento autorizzativo.
Sulla base di queste osservazioni, il Tribunale di Roma – con ordinanza del 21.7.20 – rilevata “l’evidente eterogeneità dei procedimenti penali”, rigettava la richiesta di trascrizione delle intercettazioni, atteso che “nessuna connessione di alcuna natura, se non l’incidentale e causale captazione delle comunicazioni reputate di interesse, pare sussistere tra i fatti oggetto del primigenio procedimento napoletano e la contestazione qui elevata, anche a mente dei principi da ultimo espressi a Sezioni Unite dalla Sentenza 2/1/20, n. 51, in proc. Cavallo, tale da poter dunque per altra via ricondurre i fatti/reato odierni a quelli per i quali l’autorizzazione e le successive proroghe erano state concesse”.
Rigettata la richiesta d’ammissione dell’unica fonte di prova a carico, il Tribunale emetteva sentenza d’assoluzione ex art. 129 c.p.p. “perché il fatto non sussiste”.