La responsabilita’ professionale del sanitario

.Confronto con la responsabilità dell’avvocato
 
Il 70/75% delle azioni di responsabilità proposte, hanno quali destinatari i sanitari e gli avvocati, la restante percentuale è divisa tra le altre categorie di professionisti.
 
Storicamente, nel nostro ordinamento giuridico ambedue le azioni trovano fondamento nell’articolo 1176, comma 2, del codice civile, il quale recita: “Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata (1218)”. 
In sostanza, v’è un espresso rinvio alla responsabilità contrattuale sancita nell’ art. 1218 c.c.. In concreto, però, i presupposti su cui deve fondarsi l’azione di responsabilità esperita nei confronti del sanitario sono ben diversi da quelli su cui deve fondarsi la medesima azione diretta nei confronti dell’avvocato. A parità di norma, v’è una differenza fondamentale di natura ontologica attinente alla causazione del danno. Nell’azione di responsabilità medica, una volta provato il nesso di causalità tra l’azione o l’omissione del sanitario e gli effetti postumi subiti dal paziente attore, l’avvenuta causazione del danno risulterà “certa” (risarcimento del danno). Nell’azione di responsabilità dell’avvocato non può giungersi alla medesima conclusione. Il danno che un “assistito” può subire non è mai causalmente legato in modo diretto all’azione o all’omissione dell’avvocato, ma è mediato. In altre parole, accertare che vi sia stato un comportamento negligente da parte dell’avvocato non è sufficiente a dimostrare che il cliente abbia concretamente subito un danno. Nel caso della responsabilità medica, il rapporto è meccanicistico: il medico che durante un intervento ha tagliato col bisturi il dotto della colecisti, generando una peritonite, è responsabile ed ha direttamente causato il danno: d’altronde le statistiche sanitarie certificano che nel 90% dei casi, un simile errore genera nel paziente una serie di problematiche all’intestino. Nel caso della responsabilità dell’avvocato, invece, non è ipotizzabile un simile rapporto meccanicistico. In questi giudizi, infatti, l’esistenza di una condotta non professionalmente diligente dell’avvocato, non implica meccanicisticamente l’esistenza di un danno. L’avvocato che in seguito al conferimento di un incarico dimentica di appellare una sentenza di condanna, sicuramente si è reso protagonista di un comportamento negligente ma non per forza ha causato un danno. Chi agisce per l’accertamento della responsabilità dell’avvocato, quindi, non potrà limitarsi a dimostrare la condotta negligente del professionista ma avrà l’onere di provare che quella condotta abbia causalmente generato un danno. Nell’esempio precedente, dovrà provare che l’appello non proposto abbia impedito all’assistito di beneficiare di una pronuncia che, con ragionevole probabilità, sarebbe stata positiva (c.d. giudizio prognostico). Nei procedimenti di responsabilità professionale nei confronti dell’avvocato, il più delle volte il giudizio introdotto si dimostra privo della documentazione necessaria per permettere al giudice di decidere sulla ragionevole probabilità di accoglimento della domanda e, quindi, sul danno, limitandosi l’attore a provare il comportamento negligente. La conseguenza è che l’organo giudicante, nella sentenza, darà sì atto della condotta negligente dell’avvocato, senza però ravvisare gli elementi necessari per accertare causalmente il danno. E’ importante, quindi, che chi agisce per dimostrare la responsabilità dell’avvocato metta a disposizione del Giudice gli atti e la documentazioni idonei a provare il danno. Nell’esempio del mancato appello della sentenza di primo grado, l’attore dovrà allegare le documentazioni e gli atti del giudizio di primo grado, in modo da permettere al “giudice della responsabilità” di valutare la ragionevole probabilità che, senza l’errore del legale, la domanda sarebbe stata accolta.
 
Entriamo ora nel merito della riforma in epigrafe indicata. Fin da subito è opportuno sottolineare che la Legge 8 marzo 2017, n. 24, non si occupa solamente della responsabilità civile e penale degli esercenti l’attività sanitaria. Infatti, il legislatore ha preferito elaborare una norma di struttura che fosse in grado di intervenire anche su altri importanti aspetti (cfr. prevenzione) al fine di impedire il verificarsi di situazioni di malasanità.
 
2. Artt. 1, 2 e 3
 
Gli artt. 1, 2 e 3 testimoniano i diversi piani sui quali il legislatore è voluto intervenire.
 
L’art. 1, rubricato “Sicurezza delle cure in sanità”, afferma come la sicurezza delle cure si realizzi anche e soprattutto mediante un’opera di prevenzione e di gestione di tutti quei rischi connessi alle terapie o agli interventi che il medico prescrive o realizza, nonché mediante un corretto utilizzo delle risorse tecnologiche e organizzative messe a disposizione. Questo è senza dubbio un principio innovativo.
 
Ma come è possibile perseguire tali obiettivi? Secondo il legislatore mediante la previsione e la creazione di una serie di organismi, i quali vengono elencati all’interno degli artt. 2 e 3:
 
1) il difensore civico (garante del diritto alla salute) che può essere adito gratuitamente da chiunque sia destinatario di prestazioni sanitarie, al fine di segnalare qualsiasi disfunzione del sistema di assistenza sanitaria. Egli, accertata la fondatezza della segnalazione, interviene a tutela del diritto leso con i poteri e le modalità stabiliti dalla legislazione regionale;
 
2) il Centro per la Gestione del Rischio Sanitario e la Sicurezza del Paziente, che si occupa di raccogliere da ogni struttura sanitaria (sia pubblica che privata) i dati regionali inerenti ai rischi, agli eventi avversi, ai contenziosi in atto e agli errori commessi e di informare su tali punti, mediante appositi report, l’Osservatorio Nazionale delle buone pratiche sulla Sicurezza nella sanità;
 
3) l’Osservatorio Nazionale delle buone pratiche sulla Sicurezza nella sanità, che acquisisce dai Centri di cui al sub 2) i predetti dati regionali al fine di individuare con l’ausilio delle associazioni scientifiche delle professioni sanitarie, idonee misure per la prevenzione e la gestione del rischio sanitario e il monitoraggio delle buone pratiche per la sicurezza delle cure nonché per la formazione e per l’aggiornamento del personale esercente le professioni sanitarie. Annualmente, il Ministero della Saluta fa una relazione alle Camere sull’attività svolta dall’Osservatorio. Questo organismo ha un’importanza vitale poiché, come si vedrà, parteciperà in modo concreto al processo di elaborazione delle Linee Guida.
 
3. Art. 4 – TRASPARENZA DEI DATI
 
Qui il legislatore da un lato ha voluto porre rimedio all’annosa questione inerente la difficoltà di accedere, in tempi rapidi, alle proprie cartelle cliniche e, da un altro lato, intervenire sull’art. 37 del regolamento di polizia mortuaria, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1990, n. 285. Con riferimento alla prima questione, si dispone che le cartelle cliniche debbano essere rilasciate entro 7 giorni dalla richiesta e che gli eventuali successivi aggiornamenti, perlopiù riconducibili ad esami i cui risultati sono giunti in momento successivo (vedi analisi DNA), debbano essere rilasciati non più tardi di 30 giorni dalla suddetta richiesta. Tuttavia, la funzionalità di questa norma appare subordinata ad una previsione difficilmente realizzabile nei tempi previsti: infatti, entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore di questa Legge, ogni struttura sanitaria avrebbe dovuto modificare i propri regolamenti in materia di “accesso ai dati”, così da renderli compatibili a tale previsione. Per ciò che attiene, invece, alla seconda questione, il legislatore è intervenuto al fine di garantire al familiare o ad altro avente titolo del deceduto la possibilità di richiedere la partecipazione di un “proprio” medico al riscontro autoptico che viene effettuato all’interno della struttura sanitaria. E’ anche vero, però, che la disposizione in oggetto si ferma alla circostanza che il privato possa effettuare la richiesta senza, in concreto, prevedere l’obbligo a carico della struttura sanitaria di comunicare al medico designato la data della seduta congiunta.
 
4. Art. 5 – LE LINEE GUIDA
 
L’art. 5 disciplina l’aspetto delle buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida,. Con riferimento all’art. 5, la novità più interessante attiene al tentativo di superamento delle criticità scaturenti dalla Legge Balduzzi in merito alle c.d. “linee guida”. Nel testo della riforma in oggetto, infatti, per la prima volta vengono individuate le modalità di produzione delle raccomandazioni contenute nelle linee guida. Infatti, secondo il testo della riforma, le c.d. “guidelines” vengono elaborate da una serie di strutture scientifiche (enti ed istituzioni sia pubbliche che private, società scientifiche e associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie) le quali, però, devono essere accreditate in apposito albo (risolvendo anche la questione dell’affidabilità delle raccomandazioni). Man mano che le strutture accreditate elaborano le varie linee guida, vengono inserite nel Sistema Nazionale per le Linee Guida (SNLG). In questa fase, però, le linee guida non hanno ancora il crisma della “legalità”. Affinché diventino Linee Guida “legali” dovranno essere esaminate dall’Istituto Superiore di Sanità, il quale ne valuterà la conformità rispetto agli standard definiti e resi pubblici per ciascuna linea guida e verificherà la rilevanza delle evidenze scientifiche poste a fondamento delle stesse. Solo a quel punto l’Istituto Superiore di Sanità provvederà ad inserire la Linea Guida nella propria banca dati, rendendola legale. L’importanza della “legalità” di una Linea Guida si coglie soprattutto con riferimento alle questioni attinenti alla responsabilità penale dell’esercente l’attività sanitaria (art. 6): solamente le guidelines legali hanno valore scriminante.
 
5. Art. 6 – LA RESPONSABILITA’ PENALE
 
L’art. 6 interviene sulla rilevante questione della responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria.
 
L’articolo in parola abroga il comma 1 dell’art. 3 del Decreto Legge 13 settembre 2012, n. 158 (c.d. Decreto Balduzzi), il quale così recitava: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”. Tale disposizione era nata con l’intento di ridurre l’area del penalmente rilevante rispetto alla categoria della colpa medica ma, in realtà, aveva generato numerosi dibattiti giurisprudenziali in ordine alle diverse sfumature della “colpa”. La Corte di Cassazione aveva fin da subito colto l’impossibilità di determinare la differenza tra colpa grave e colpa lieve, soprattutto data l’assenza di indicazioni da parte del legislatore. I soli riferimenti alla stregua dei quali valutare l’intensità della colpa erano, secondo il dettato di legge, quelli delle linee guida e delle buone pratiche, parametri però di dubbia natura e portata. Il giudice di legittimità, peraltro, aveva fin da subito ritenuto che la disposizione di cui all’art. 3, comma 1, della Legge Balduzzi, non poteva riferirsi anche alle ipotesi di colpa per negligenza o imprudenza, giacché le guidelines contenevano solo regole di perizia (sent. 11.3.2013, n. 11493; sent. 6.3.2014, n. 10929; sent. 28.8.2014, n. 36347). Inoltre, la Suprema Corte aveva anche sollevato dubbi in merito all’affidabilità delle linee guida oggetto di valutazione nel giudizio di merito e ciò in ragione dell’assenza di una disciplina che concretamente stabilisse le modalità e i soggetti abilitati a produrle. Tali problematiche ad oggi risultano superate.
 
La Legge 8 marzo 2017, n. 8, all’art. 6 prevede l’introduzione di una nuova fattispecie criminosa in grado di superare i surrichiamati dibattiti giurisprudenziali in materia di “colpa”, introducendo la “colpa medica”. Così testualmente si legge: “Dopo l’articolo 590-quinquies del codice penale è inserito il seguente: «Art. 590-sexies. – (Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario). – Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”. In sostanza, qualora i fatti di cui agli artt. 589 (omicidio colposo) e 590 (lesioni colpose) del codice penale vengano posti in essere nell’esercizio dell’attività medica, le pene saranno le medesime di cui agli articoli citati. Allo stesso tempo, si accoglie il succitato arresto giurisprudenziale in materia di esimenti e nel testo di riforma si afferma che solamente nell’ipotesi in cui l’evento si sia verificato a causa di imperizia (e non anche negligenza ed imprudenza) potrà escludersi la punibilità del medico che abbia rispettato la raccomandazione contenuta nella linea guida legale.
 
E’ però opportuna una precisazione. L’inciso “sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto” fa sì che la causa di esclusione della pena non operi di diritto ogni qual volta si verifichino le predette circostanze. Il giudice, infatti, dovrà anche tener conto del caso concreto: la raccomandazione contenuta nella linea guida avrà effetto scriminante solamente una volta accertata l’adeguatezza al caso di specie. La linea guida viene elaborata sulla base di un soggetto standard di riferimento e il quadro clinico del soggetto del caso di specie ben potrebbe allontanarsi dall’ipotesi standard. Il giudice dovrà conoscere il target di riferimento che ha portato all’elaborazione della Linea Guida e verificare se il caso di specie sia in esso sussumibile. Questo è un passaggio non semplice.
 
Si pensi alla terapia oncologica standard: è tale in relazione a determinati soggetti. Infatti, esiste una terapia di chemio che funziona per la maggior parte dei casi (85%), ma esiste un 15% di casi in cui non funziona e questi casi sono già conosciuti (tipologie neoplastiche particolarmente aggressive con caratteristiche particolari o associate a situazioni particolari dell’individuo). In questo caso, se il medico sottopone il paziente che rientra nel 15% alla terapia di chemio standard, il fatto che vi sia una Linea Guida che accerta il funzionamento della terapia standard per la maggior parte dei casi non avrà l’effetto di scriminare il sanitario. Egli avrebbe dovuto individuare la chemioterapia adeguata alla specificità del caso concreto, quindi al quadro clinico di quel determinato paziente.
 
Art. 7 – LA RESPONSABILITA’ CIVILE
 
“La struttura sanitaria …omissis… che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose”. “L’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile …omissis…”.
 
L’art. 7, dunque, disciplina la gestione della responsabilità civile della struttura e del medico. Anche qui l’intervento operato dal legislatore è di massima incidenza. Egli ha espressamente differenziato la tipologia di responsabilità di cui risponde la struttura da quella di cui rispondono gli esercenti. Più precisamente, una responsabilità contrattuale ex 1228 c.c. per le strutture sanitarie, una responsabilità contrattuale ex 1228 c.c. per i medici che operano in intramoenia ed una responsabilità extracontrattuale ex 2043 c.c. per i medici che esercitano la professione quali dipendenti della struttura sanitaria, salvo che abbiano agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Da quanto emerge dall’art. 7, la struttura sanitaria risponde delle condotte del medico sia dolose che colpose. Anche questa è una novità. Se sulle condotte colpose non v’è mai stato dubbio, per quanto riguarda quelle dolose la giurisprudenza è sempre stata ferma nel ritenere che la struttura sanitaria dovesse rispondere per il proprio medico solamente qualora vi fosse stato un rapporto di causalità tra la condotta dolosa e l’attività dipendente. Ora non è più così. In buona sostanza, secondo questa riforma, qualora un medico di un ospedale maltrattasse un paziente diretto al bar, vi sarebbe ugualmente responsabilità della struttura ospedaliera. La riforma non ha creato alcuna distinzione: risponde sempre e comunque la struttura ospedaliera salva l’azione di rivalsa ex art. 9 che, però, risulta limitata ad una somma pari “al valore maggiore del reddito professionale …omissis… conseguito nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo”. Un regime di favore che lascia perplessi: perché garantire un trattamento di favore per una condotta dolosa commessa da un medico non nell’esercizio della sua attività?
 
Il giudice, poi, nella determinazione del quantum di risarcimento del danno deve tener conto anche della condotta del medico ai sensi dell’art. 5 (linee guida) e dell’ introdotto articolo 590-sexies del codice penale. Per cui l’aver seguito le linee guida, determinerebbe una riduzione del risarcimento ipotizzabile. E’ la prima volta in cui la determinazione del quantum del risarcimento del danno avviene non solo sulla base del danno subito ma anche sulla base della condotta tenuta. Ciò comporta l’impossibilità di utilizzare le sole tabelle sul danno biologico del Codice delle Assicurazioni, le quali non tengono minimamente conto della condotta del danneggiante. 6.
 
Art. 8 – TENTATIVO OBBLIGATORIO DI CONCILIAZIONE
 
Il legislatore introduce un tentativo obbligatorio di conciliazione quale condizione di procedibilità, con intento deflattivo. Di fatto, però, ha previsto quale tentativo di conciliazione un procedimento che ha pur sempre natura/struttura giudiziale: quello previsto dall’art. 696-bis c.p.c.. In alternativa, si prevede la possibilità di utilizzare la mediazione obbligatoria ex art. 5, comma 1bis, del D. Lgs. 28/2010.
 
Per quanto riguarda il 696-bis occorre fare alcune considerazioni. In primo luogo, è una condizione di procedibilità sanabile poiché l’improcedibilità può essere eccepita dalla parte o sollevata d’ufficio dal giudice fino al termine massimo dell’udienza di prima comparizione. Poi, viene previsto un termine perentorio di 6 mesi entro i quali la procedura di consulenza tecnica preventiva deve esaurirsi, senza però prevedere alcuna sanzione processuale, se non la perdita di efficacia della domanda giudiziale. Questo è un termine che appare assolutamente inadeguato per l’espletamento di una simile procedura, soprattutto se si considera che la partecipazione è obbligatoria per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione (integrazione contraddittorio, termine al consulente d’ufficio, termine ai consulenti di parte, deposito relazione definitiva ecc.).
 
Qualora la domanda divenga improcedibile, si dice che “gli effetti della domanda sono salve se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza dl termine perentorio …omissis… è depositato il ricorso di cui all’articolo 702-bis”. Qui il problema è duplice: da un lato si afferma che la mancata riassunzione comporta la perdita degli effetti della domanda e da un altro che la riassunzione debba avvenire col 702-bis. Con riferimento al primo problema, si deve sottolineare che la perdita degli effetti della domanda non è un principio autonomo ma è la conseguenza dell’estinzione del giudizio, quindi dovremmo pensare che il legislatore abbia fissato gli effetti dell’estinzione, senza espressamente sancirla. Con riferimento al secondo problema, si prevede la riassunzione col ricorso ex 702-bis, il quale viene richiamato per intero e che nel nostro ordinamento si pone come azione autonoma: in questo modo non si forma mai la stabilizzazione della documentazione da utilizzare, il che vuol dire che nel nuovo ricorso ex 702-bis ben potrebbe essere presentata documentazione nuova e diversa da quella esaminata dal consulente del 696-bis. Un’altra considerazione è opportuna. Nella mediazione, come noto, qualora si sia rifiutata la proposta e la sentenza abbia un contenuto corrispondente, il giudice condanna la parte vincitrice al pagamento delle spese processuali ed al pagamento di un importo pari al C.U. a favore dello Stato. Qui si va oltre. Il giudice condanna chi non ha partecipato al procedimento di conciliazione al pagamento delle spese di consulenza e di lite e di una pena pecuniaria determinata equitativamente, nei confronti di chi ha partecipato, indipendentemente dall’esito del giudizio. Sembrerebbe essere un’apertura al c.d. “danno punitivo” da sempre rifiutato dal nostro ordinamento. 
 
7. Art. 9 – AZIONE DI RIVALSA
 
All’art. 9 è prevista l’azione di rivalsa della struttura sanitaria nei confronti del medico dipendente, nella sola ipotesi in cui venga accertata la sua responsabilità per dolo o colpa grave. Ora, se il medico è stato parte del giudizio nulla quaestio. Il problema però sorge quando il medico non è stato parte del giudizio. La legge, infatti, non prevede che il medico sia sempre litisconsorte necessario: ben potrebbe accadere che il paziente che abbia subito un danno agisca nei confronti della sola struttura sanitaria (responsabile ai sensi del 1218) e dell’assicurazione di quest’ultima. Il litisconsorzio necessario è soltanto fra struttura e assicurazione e medico e assicurazione: a coppie. Dunque vi sono ipotesi in cui il medico non è parte del giudizio che accerta la responsabilità, e in tali casi si avrà condanna dell’ospedale che per poter agire in rivalsa nei confronti del medico dovrà fare un giudizio autonomo ove provi la responsabilità dell’esercente. Al comma 3, dell’art. 9, infatti si legge: “La decisione pronunciata nel giudizio promosso contro la struttura sanitaria o sociosanitaria o contro l’impresa di assicurazione non fa stato nel giudizio di rivalsa se l’esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio”. Dunque, la struttura sanitaria nell’agire in rivalsa dovrà provare la responsabilità del medico e dovrà farlo entro un anno dall’avvenuto pagamento del risarcimento al paziente. Un altro punto va analizzato. Cosa accade quando viene introdotta un’ azione nei confronti di tutti i soggetti, sia pure sulla base di una causa petendi diversa: art. 2043 c.c. per il medico e art. 1218 c.c. per la struttura sanitaria? La differenza in punto di onere probatorio tra le due responsabilità è chiara. Tuttavia, deve considerarsi che nell’ambito dei giudizi di responsabilità professionale del sanitario, l’istruttoria della causa si decide con la consulenza tecnica. In altri termini, la CTU da semplice mezzo istruttorio diviene elemento di prova dirimente. A questo punto però, in un giudizio dove le parti sono tutte presenti la chiara distinzione in merito all’onere probatorio sfuma. La Cassazione in diverse pronunce ha affermato che una volta che il mezzo istruttorio è espletato le risultanze sono del processo. Quindi ci si trova in una situazione nella quale la prova dell’eventuale responsabilità del medico si è ottenuta senza che l’abbia fornita l’attore, in quanto emersa dal processo (CTU).
 
8. Artt. 10 E 11 – OBBLIGO DI ASSICURAZIONE E CLAIMS MADE
 
L’art. 10 sancisce l’obbligo per i medici e per le strutture sanitaria di stipulare un contratto di assicurazione. Tuttavia, nonostante gli sforzi del legislatore, alcuni punti restano oscuri. Da un lato, infatti, non si prevedono sanzioni per chi non si assicura, da un altro lato non è stato sancito l’obbligo a contrarre in capo all’assicurazione. In sostanza, la struttura è obbligata ad assicurarsi ma se non lo fa non incorre in alcuna sanzione, così come ben potrebbe accadere che alcuna assicurazione sia disposta a garantire al richiedente la copertura. La tipologia di assicurazione alla cui stipula tali soggetti sono obbligati è differente. Infatti, i medici dipendenti devono stipulare un’assicurazione che li garantisca per la responsabilità amministrativa se pubblici e per l’azione di rivalsa se privati; mentre le strutture sanitarie devono assicurarsi (o in alternativa creare meccanismi di fondi separati per la gestione in proprio del rischio) per la responsabilità civile verso terzi e verso prestatori d’opera ed anche per i danni cagionati dal personale.
 
Le caratteristiche della propria polizza assicurativa, poi, dovranno anche essere rese pubbliche sui siti internet delle strutture. Per ciò che attiene la statuizione dei requisiti minimi del contratto assicurativo dovrà provvedere il Ministero dello sviluppo economico, il quale con decreto individuerà tra le altre una soglia minima del massimale assicurativo, le ipotesi di assunzione diretta del rischio e le varie condizioni di operatività. Sul punto, già si ipotizza una realtà caratterizzata dalla differenziazione del massimale a seconda delle classi di rischio nelle quali vengono inseriti i singoli medici o le singole attività svolte.
 
L’art. 11, peraltro, affronta l’importante questione della estensione della garanzia assicurativa (clausola claims made). Il legislatore ha pensato di risolvere la questione prevedendo una claims made pura per ogni polizza, con una retroattività di copertura decennale della copertura e una ultrattività decennale al momento della cessazione dell’attività. 9.
 
Art. 12 – AZIONE DIRETTA
 
“Fatte salve le disposizioni dell’articolo 8, il soggetto danneggiato ha diritto di agire direttamente, entro i limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto di assicurazione, nei confronti dell’impresa di assicurazione che presta la copertura assicurativa alle strutture sanitarie di cui al comma 1 dell’articolo 10 …omissis… e all’esercente la professione sanitaria di cui al comma 2 del medesimo articolo 10”. Dunque, si introduce la possibilità per il danneggiato di agire in via diretta nei confronti della compagnia assicurativa della struttura sanitaria o del medico, tenendo presente le diverse tipologie di assicurazione alle quali sono obbligati. Ovviamente, in tali ipotesi litisconsorte necessario sarà nel primo caso la struttura sanitaria e nel secondo caso il medico ed è fatta salva l’azione di rivalsa della compagnia assicurativa nei confronti dell’assicurato “nel rispetto dei requisiti minimi, non derogabili contrattualmente, stabiliti dal decreto di cui all’articolo 10, comma 6”. Sul punto, un’importante previsione è la parificazione del termine di prescrizione dell’azione diretta nei confronti dell’assicurazione a quello dell’azione verso la struttura sanitaria o nei confronti del medico: quindi 5 anni se si agisce nei confronti dell’assicurazione del medico e 10 anni se si agisce nei confronti dell’assicurazione della struttura sanitaria. Altra novità è l’opponibilità al danneggiato delle sole eccezioni contrattuali fissate all’interno del decreto di cui all’articolo 10, comma 6: decreto che, come detto, ancora non è stato emanato. Nella pratica, comunque, l’assicurazione pagherà il danneggiato e poi, in rivalsa, sulla base delle eccezioni contrattuali opponibili indicate nel decreto di cui prima, potrà ottenere dal proprio assicurato le somme anticipate. 
Flavio Carosi

Flavio Carosi